Marco Boato - attività politica e istituzionale | ||||||||||||||||
|
||||||||||||||||
|
2 aprile 2006 «Ecco una ricostruzione controllata e sicura dell’agghiacciante vicenda; ogni notizia proviene da fonte direttamente informata. Secondo testimoni oculari, i prigionieri furono schierati dinanzi alla prigione di Kindu, già pesti e insanguinati, e uccisi a colpi d’arma da fuoco; poi vennero fatti a pezzi dalla soldataglia scatenata...». Chissà quante volte Sabrina Marcacci avrà letto e riletto queste ormai sbiadite righe datate 18 novembre 1961. È il primo pezzo inviato alla “Stampa” dal primo inviato giunto in Congo, Alberto Ronchey, all’indomani dell’eccidio dei 13 aviatori italiani a Kindu. Ronchey ne aveva mandati diversi, di reportage, fino al 1° dicembre 1961. E aveva ricostruito quasi tutto quello che oggi la storia ci consegna come la verità sulla strage di Kindu. Verità che coincide in tanti particolari con quanto racconta oggi Georges Mbula, tranne per ciò che allora era stato messo in giro dai soldati congolesi per giustificare la strage, ossia che gli italiani fossero diretti nel Katanga per portare armi ai secessionisti e che fossero stati fatti atterrare a Kindu con l’inganno dagli addetti alla torre di controllo. Ronchey, già pochi giorni dopo l’eccidio, aveva accertato che la torre di controllo era fuori uso da mesi. Un papà mai conosciuto Queste righe della Stampa riguardano, tra gli altri, il sergente elettromeccanico di bordo Martano Marcacci, papà di Sabrina. Papà che lei non ha mai conosciuto se non attraverso le foto e i ricordi della mamma. Sabrina le rilegge ancora una volta per fornirci alcuni dei documenti che conserva nel suo personale archivio, e per ricordare per noi una storia che dura da tutta una vita: allora, l’11 novembre 1961, quando il padre venne trucidato, a 27 anni, a Kindu, Sabrina aveva neanche un anno e mezzo, la madre appena 20. «Quello che ho di mio papà», racconta, «sono solo i racconti di mia madre. E un vaghissimo ricordo: che mi arrampicavo su una credenza per prendere delle arachidi salate, portate da un lungo viaggio da papà. Ho il ricordo che poi quelle arachidi non c’erano più, e che mia madre piangeva sempre. Nessuno di noi figli degli aviatori ricorda quei giorni, ma abbiamo dentro il dolore delle nostre madri, nonni, zii, che è cresciuto con noi. Le nostre vite e la nostre famiglie sono state spezzate». «Perciò», aggiunge, «ho sempre sognato di riuscire a fare qualcosa per mio padre e per i suoi colleghi. Ora, dopo 45 anni, ci sono riuscita. Per me è una grande soddisfazione morale, dopo tanto oblio per quelle tredici vittime». Difatti, nell’ultimo giorno della legislatura che si è appena chiusa è stata votata una legge, in due soli articoli, che sancisce, dopo quasi mezzo secolo, il risarcimento alle famiglie degli aviatori. Davvero vittime dimenticate, quelle di Kindu. Nonostante sia stata la prima strage del dopoguerra, nonostante che i militari italiani fossero in Congo come caschi blu in missione di pace per l’Onu, lo Stato se ne dimenticò totalmente. Solo nel 1994, a distanza di 33 anni dall’eccidio, fu riconosciuta loro la medaglia d’oro al valor militare. Meglio tardi che mai E solo adesso è stata varata la legge per il risarcimento. Frutto della tenacia di Sabrina e di quella del deputato Verde Marco Boato che, preso a cuore il caso, ha proposto la norma e l’ha seguita passo passo fino alla sua approvazione (peraltro con voto unanime). «Tutto è nato quando venni a sapere che era stata fatta una legge apposta per le vittime di Nassiriya», racconta Sabrina, «per risarcire le famiglie dei militari uccisi fuori dai confini nazionali. La norma risultava applicabile solo dal l gennaio 2003. In un moto di rabbia, scrissi allora al presidente della Repubblica Ciampi e a quello del Consiglio Berlusconi. Quest’ultimo non mi ha risposto, Ciampi mi mandò una lettera di cortesia, e nulla più. Allora scrissi a tutti i cinquanta deputati e senatori che avevano promosso la legge per i militari di Nassiriya. Mi risposero in tre: gli onorevoli Biondi, Mazzoni e, appunto, Boato, il quale mi disse di non farmi illusioni, ma che avrebbe fatto tutto il possibile. Beh, ha mantenuto la parola». Già, una grossa soddisfazione morale, dopo essersi sentiti familiari di vittime di “serie B”. Sabrina Marcacci racconta che la madre seppe della morte del marito per radio, cinque giorni dopo l’eccidio, il 16 novembre 1961. Solo molti mesi dopo fu recuperato ciò che restava delle salme, e i responsabili - pure se individuati - non furono mai processati. «Per me è importante averli ricordati, perché facevano del bene. Era giusto fare qualcosa per loro», continua Sabrina. «Erano in missione di pace e nel carico di quei due aerei non c’erano solo le autoblindo, l’armamento e i materiali per la missione Onu. C’erano anche giocattoli per i bambini congolesi, che gli aviatori raccoglievano di loro iniziativa. Mio padre amava quei luoghi e quella gente, che considerava tanto sfortunata, al punto che voleva portarci laggiù, per conoscere quella realtà». Sabrina, però, a Kindu, non c’è ancora andata: «È un altro piccolo sogno che mi porto dentro. Prima o poi realizzerò anche questo».
|
MARCO BOATO |
||||||||||||||
© 2000 - 2024 EUROPA VERDE VERDI DEL TRENTINO webdesigner: m.gabriella pangrazzi |
||||||||||||||||
|